M'imbarcarono sopra una nave carica di soldati

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La moglie di Ido Bartoli e Enzo Gasperini
Momento della giornata
pomeriggio
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Grazie al prezioso contributo di Enzo Gasperini, ho incontrato il signor Bartoli Ido residente a Lari per ascoltare, raccogliere e trasmettere la sua storia.
E' una giornata calda d'estate e lui e la moglie si trovano fuori, nel tardo pomeriggio, a prendere un po' d'aria. Quando arriviamo ci invitano ad entrare in casa; ci mettiamo a sedere e ci presentiamo; il signor Bartoli conosce già la ragione del nostro incontro e, esauriti i convenevoli, tira fuori dal cassetto del mobile che si trova dietro di lui un blocco consistente, apparentemente bianco. Invece no, sul retro ha già iniziato a scrivere la sua storia, “con tanti sbagli” come dice schermendosi, ma insomma ha trovato la forza e il coraggio di prendere la penna in mano e scavare dentro se stesso. Adesso vuole che qualcuno lo ascolti e noi siamo lì apposta.
Così inizia: “Mi chiamo Bartoli Ido, sono nato a Terricciola, in Provincia di Pisa, il 26/4/1921 in via della Compagnia a casa Bartoli. Ho sempre fatto il contadino e il mio mestiere era lavorare la terra. Poi diventai grande e dovetti andare a fare il soldato. Mi presentai alle armi con la classe del 1921 al Distretto di Pisa che, dopo la visita, mi mandò a Pistoia assegnato al Reggimento Fanteria Divisione Venezia, Secondo Battaglione, Terza Compagnia Mitraglieri.”
Questo è solo un prologo; non c'è molto spazio per il racconto dell'infanzia, sono troppe – lo ripete spesso – le cose da ricordare, da raccontare e da trasmettere. Il racconto va dritto al punto, si muove senza esitazioni verso un obiettivo.
Infatti, nel 1941 viene richiamato e inviato a Bari per essere mandato a fare la guerra, come dice lui stesso: “m'imbarcarono sopra una nave carica di soldati”, per andare in Jugoslavia. “Il mare era bello e non sembrava pericoloso.” C'era la scorta, aerei e Mas, tanti giovani verso un'avventura.
Un'avventura che subito diventa paurosa, per il pericolo di essere colpiti e affondati, l'arrivo precipitoso nel porto, la visione di una terra diversa, straniera, ricca di insidie e pericoli.
Il racconto del Bartoli non può essere riassunto, scriverne un sunto è un oltraggio imperdonabile. La storia che racconta è un universo parallelo, un mondo di particolari, di aneddoti, di nomi, di luoghi, di facce, di dolori, di odori e sapori in cui è possibile immergersi solo attraverso il potere magico ed evocativo della parola.
“Mi ricordo che, avanti giorno, si partì per le montagne. Fu allora che vidi i primi morti. Arrivati sopra al pianerottolo in cima la montagna, c'era una casa, insomma, una specie di casa: quattro mura e ricoperta di paglia. Bruciata. Sulla porta bruciata, con un lanciafiamme, una donna morta piena di sangue e di mosche. Ma però, che mi fece più pena, c'era anche un bimbo, che avrà avuto otto anni, anche lui bruciato. Lo vedo! Questi furono i primi morti che vidi e mi restarono in mente per qualche tempo. Poi tutto passò e continuò la nostra avanzata.”
Quando finisce il supporto del racconto scritto, quando la narrazione deve spostarsi da quelle parole scelte e collocate in un preciso ordine, c'è un'improvvisa liberazione; la coerenza è minore ma emerge una freschezza e spontaneità che fa rabbrividire, che colpisce al cuore.
Così continua, raccontando che per oltre due anni combatte sul fronte slavo, prima da occupante e poi sotto il costante pericolo di essere ucciso dalle brigate partigiane, dai cecchini e tenuto lontano dall'ostilità della popolazione civile.
Ma nel 1943... “Venne l'otto settembre. In un primo tempo sembrò molto bello pensando che fosse finita la guerra e tornare a casa. E invece fu molto diverso perché di noi non se n'occupò più nessuno. Si restò soli come cani, non si sapeva più che cosa fare.”
Allora con il suo comandante e altri soldati andò sulla montagna per unirsi ai titini combattendo come Brigata Garibaldi contro i tedeschi.
Durò poco questa avventura perché il 5 ottobre vennero catturati da un battaglione tedesco e iniziò la seconda parte della guerra del Bartoli, quella più penosa, più dolorosa e tremenda: il campo di prigionia. “C'era delle baracche con quella tela cerata sopra, che tutte le notti faceva: tun! tun!. Io gli dissi a' mi' amici: «mettiti in quel cantuccio là, tante volte ci si scatena il temporale là ci si ripara meglio». E c'era due di Arezzo... un certo Agostini Agostino di provincia di Grosseto....”
E' lui stesso a dirlo: “sono tante le cose da raccontare, ma tante tante tante, che a me a volte mi viene la pelle di gallina”. E così è impossibile dare brevemente conto di tutti gli episodi indelebilmente impressi nella sua memoria, con cui ha continuato a convivere per oltre sessanta anni. Si tratta di andare a fondo, di prendere fiato e trattenerlo per scendere giù, in profondità e poi afferrare quello che si riesce, quello che si può, quello che è possibile recuperare.
Per poi tornare fuori e sperare che gli altri capiscano.
Quando racconta, le frasi in italiano si alternano con quelle in tedesco, in serbo e, infine, in russo.
Nell'aprile del 1945 si trova con altri in un campo di prigionia vicino a Vienna ed è l'esercito russo a liberarlo, consentendogli di uscire finalmente dal tormento del campo di lavoro ma senza la possibilità di poter tornare subito a casa.
Così, con un gruppetto di italiani, inizia una nuova odissea, che lo porta prima al confine con la Carinzia e il pericolo di attraversare i boschi infestati dai soldati tedeschi in fuga; successivamente, ritorna a Vienna e quindi parte di nuovo a piedi per Bratislava, da dove inizia il nuovo, ultimo, viaggio per il rimpatrio.
Il ritorno avviene, infine, saltando giù dal treno a Pontedera e incamminandosi sulla strada che conduce a Terricciola.
Giunto a casa, nel tripudio generale e nella gioia commossa della famiglia, riuscì a mangiare solo tre cucchiaiate di minestra, tanto lo stomaco si era disabituato.

Ferisce la storia narrata da quest'uomo che ha attraversato dolori e terrore. Per trent'anni Ido Bartoli ha conservato e custodito gelosamente le sue storie, non le ha raccontate se non a pochi intimi, non ha cercato clamori, non ha voluto o potuto essere ascoltato. Perfino lo Stato si è dimenticato di lui, non riconoscendogli che poche lire al ritorno dalla guerra e nessuna pensione per aver donato i migliori anni della sua giovinezza per chissà quale causa.
Oggi, Ido Bartoli, chiede che almeno qualche orecchio si tenda per ascoltare la sua testimonianza.

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Casa di Ido Bartoli
via Belvedere, 36/1
Lari PI
Italia